Il 44,3% dei collaboratori domestici, in Italia, è stato vittima di un infortunio domestico nel 2009 (Indagine CENSIS); di questi l’11,2% ha avuto più di un’occasione di infortunio nell’ultimo triennio, mentre se si considera l’intero arco di vita professionale la percentuale arriva al 70,5%.
Gli infortuni sono eventi che producono nell’84,4% dei casi conseguenze fisiche per il lavoratore. La sicurezza dei lavoratori domestici rappresenta uno dei “coni d’ombra” più rilevanti dell’ organizzazione della sicurezza sul lavoro. se si considera l’ampiezza della platea di lavoratori (1 milione e 538mila censiti nel 2009). L’attività di lavoro domestico è generalmente affidata alle fasce più deboli del mercato del lavoro, principalmente donne (82,6%), stranieri (71,6%) e persone in possesso di basso livello di istruzione. Per quanto riguarda la prevenzione dagli infortuni, l’indagine CENSIS fa emergere non solo l’assenza di una strategia complessiva di prevenzione ma anche una insufficiente comunicazione tra collaboratori domestici e famiglie e la scarsa consapevolezza dei fattori di rischio sul lavoro, che una maggiore cultura della sicurezza potrebbe invece aiutare a prevenire.
Quasi un lavoratore su tre denuncia infatti di non aver ricevuto alcuna informazione in merito ai rischi presenti nell’ambiente domestico ed all’uso di eventuali dispositivi di sicurezza o procedure di supporto.
Dal rapporto CENSIS emergono anche i comportamenti imprudenti e pericolosi più frequenti, dovuti a disattenzione e imperizia, quali:
- continuare a lavorare anche in situazioni di stanchezza e malessere fisico (67,9%);
- effettuare piccole riparazioni elettriche senza staccare la corrente (44,4%);
- usare elettrodomestici con mani o piedi bagnati (24,7%).
È utile considerare anche i paesi di provenienza, il sesso e l’età media dei collaboratori domestici. L’Inps ha pubblicato, nel mese di giugno 2019, le statistiche riferite all’anno 2018 relative ai lavoratori domestici contribuenti, quindi censibili: 859.233 unità, con un decremento rispetto al 2017 pari a meno 1,4%. L’istogramma Inps mostra chiaramente una massiccia presenza di lavoratrici, impiegate come colf, perlopiù provenienti dall’Europa dell’Est – che continua a essere la zona geografica da cui arriva la maggior parte dei lavoratori domestici – e dall’Asia Medio Orientale.
La classe d’età 50-54 anni è quella con la maggior frequenza tra i lavoratori domestici, mentre il 15,9% ha un’età pari o superiore ai 60 anni e solo il 2,0% un’età inferiore ai 25 anni. Complessivamente nel 2018 i lavoratori domestici sotto i 45 anni rappresentano il 34,4% del totale.
Ampliando il campo d’azione della prevenzione dell’incidente domestico ed estendendolo a tutti coloro che a qualsiasi titolo frequentano l’ambiente domestico, i dati forniti dal Dipartimento di Medicina del Lavoro dell’Ispesl (Istituto per la Prevenzione e Sicurezza del Lavoro) riferiscono circa 4,5 milioni di incidenti/anno tra le pareti di casa, di cui 8.000 mortali. Si tratta di dati che evidenziano come nel loro complesso questa tipologia di incidenti sia di gran lunga più rilevante degli incidenti sul lavoro e, addirittura, di quelli stradali. A fronte di questi dati le fonti INAIL registrano, però, poco più di 3.500 infortuni/anno a carico di lavoratori domestici, fenomeno questo collegato, per motivi vari, ad omessa denuncia.
Le disposizioni del vigente T.U. 81/08 e s.m.i. in materia di prevenzione degli infortuni non si applicano ai lavoratori domestici. L’art. 2 definisce “lavoratore” la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari.
Il comma 1 dell’art. 3 (campo di applicazione) recita: “Il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio; al comma 4 si legge che: il D.Lgs si applica a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati, fermo restando quanto previsto dai commi successivi del presente articolo. Si intende per lavoratore subordinato, “colui che fuori del proprio domicilio presta il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo scopo di apprendere un mestiere, un’arte o una professione…”. Il lavoratore domestico, dunque, non è escluso dalla definizione di lavoratore subordinato in quanto presta la sua opera alle dipendenze di un “datore di lavoro” e comunque sotto la direzione altrui. Tuttavia, il successivo comma 8 dell’art. 3 ribadisce che “sono comunque esclusi dall’applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto e delle altre norme speciali vigenti in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori i piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresi l’insegnamento privato supplementare e l’assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili”.
Al contempo l’art. 2087 del Codice Civile, ”Tutela delle condizioni di lavoro” è l’espressione di un principio generale che riguarda tutti i rapporti di lavoro che si svolgono o meno in un’impresa fisicamente individuata. L’applicabilità sarebbe pertanto circoscritta all’ambito dell’impresa e della sua organizzazione; in questa chiave di lettura, il lavoro svolto in ambito domestico, alle dipendenze altrui, deve essere escluso unitamente alle tutele previste per i lavoratori. Ci sembra però, legittimo, domandarsi se il nucleo familiare, con tutte le attività, le prestazioni di servizi e le azioni che comporta, non sia assimilabile a un’impresa[1].
Nel caso di collaboratori domestici ammessi alla convivenza familiare, ad esempio badanti e colf a tempo pieno, probabilmente è necessario distinguere tra dimora e domicilio. L’art. 43 c.c. definisce il domicilio di una persona come il luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi (14 Cost., artt. 45 e 46 c.c.). Secondo la giurisprudenza coesistono due fattori: uno oggettivo – la presenza obiettiva dei propri interessi e rapporti economici – e uno soggettivo, l’intenzione del soggetto di fissare in un certo luogo il centro dei propri affari o interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale (art. 144 c.c.) ovvero il luogo dove adempie ai bisogni primari della propria esistenza.
Va rilevato che, nella stragrande maggioranza dei casi, i luoghi di lavoro non sono fissi; ciò vale in particolare per gli addetti alle pulizie in ambito domestico che spesso, nell’arco di una giornata, prestano servizio presso due o più luoghi domestici in modo continuativo per almeno quattro ore consecutive. Ergo, il domicilio non coincide con la dimora. A questo punto dovrebbero potersi applicare gli artt. 36[2] e 37, sez. IV del Testo Unico 81/08 “Formazione, informazione e addestramento”; il comma 4 dell’art. 36, sottolinea come il contenuto dell’informazione debba essere facilmente comprensibile per i lavoratori e debba consentire loro di acquisire le relative conoscenze. Ove l’informazione riguardi lavoratori immigrati, essa deve avvenire previa verifica della comprensione.
La legge 2 aprile 1958, n. 339 – Per la tutela del rapporto di lavoro domestico, all’art. 1 specifica: “La presente legge si applica ai rapporti di lavoro concernenti gli addetti ai servizi domestici che prestano la loro opera, continuativa e prevalente, di almeno 4 ore giornaliere presso lo stesso datore di lavoro, con retribuzione in denaro o in natura. S’intendono per addetti ai servizi personali domestici i lavoratori di ambo i sessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare, sia che si tratti di personale con qualifica specifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche”.
L’art 6, poi, fa obbligo al datore di lavoro di fornire al lavoratore, nel caso in cui vi sia impegno di vitto e alloggio, un ambiente che non sia nocivo all’integrità fisica e morale del lavoratore e di tutelarne la salute particolarmente quando vi siano in famiglia fonti di infezione.
Nulla in più sulla sicurezza del lavoratore domestico riferisce la Legge n. 304/1973, di ratifica ed esecuzione dell’accordo europeo sul collocamento alla pari adottato a Strasburgo il 24 novembre 1969.
È dunque necessario chiarire le motivazioni che escludono i lavoratori domestici dalle tutele stabilite come criteri di legge, applicate agli altri settori di lavoro subordinato. Si deve notare, infine, che sia l’assicurazione obbligatoria, sia i corsi di formazione per l’accrescimento delle competenze professionali rivolti ai lavoratori domestici, non costituiscono, a nostro parere, una reale forma di prevenzione e tutela dagli infortuni sul lavoro: risarcire un danno non significa prevenirlo.